di ANDREA SEBASTIANELLI
Da qualche anno molti comuni stanno riscoprendo l’importanza di concedere ai cittadini fazzoletti di terreno pubblico in cui impiantare orti a conduzione familiare. Un’idea non nuova ma che ci permette di tornare indietro nel tempo quando venivano concessi in affidamento i cosiddetti orti comunali, unitamente al diritto di legnare e carbonare, in quei paesi che avevano nel bosco l’unica risorsa disponibile per consentire a tutta la popolazione di trarne dei benefici. Si tratta dell’uso civico (in uso dal 1558), concetto che evoca due principî basilari: diritto e responsabilità. Cioè il proprietario terriero, le grandi famiglie nobiliari e/o dal 1871 le stesse amministrazioni comunali, riconosceva il diritto dei cittadini a utilizzare per scopi primari alcune aree, mentre il cittadino ne rispondeva in termini di responsabilità rispettando le regole del buon comportamento. Questo aspetto è stato particolarmente presente nella zona dei Castelli Romani, a Rocca di Papa in particolare visto che era, ed è, un paese con un territorio molto vasto (oltre 4.000 ettari), per lo più boscato. Il Comune di Rocca di Papa, infatti, è proprietario di circa 1.500 ettari di bosco, che ne fa la più grande “azienda” del centro Italia.
E proprio per questo Rocca di Papa ha visto un grande utilizzo della concessione di appezzamenti pubblici da adibire ad orti, soprattutto nel quartiere montano dei Campi d’Annibale che è un vasto altopiano storicamente utilizzato per svolgere tutte quelle attività connesse al mondo agricolo-forestale: dalla preparazione del ghiaccio a quella del carbone, fino alla coltivazione degli «orti comunali».
Nel 1994, però, accade qualcosa che porterà alla luce un vero e proprio «sistema» legato alla gestione di questi orti comunali: la Regione, su sollecitazione del Comune, nomina un perito demaniale per mettere ordine nel settore per la “sistemazione degli usi civici del Comune di Rocca di Papa”, rilevando “tutti i possessi privati esistenti […] distinguendo i possessi legittimi dalle arbitrarie occupazioni”. Questo perché nel corso degli ultimi 70 anni c’era stata una vera e propria mercificazione degli orti comunali con cessioni, vendite e occupazioni tra vecchi affidatari, molto spesso eredi degli affidatari originari, e nuovi. Il tutto al di fuori delle regole ufficiali, con un vasto giro di soldi sottobanco e di semplici accordi firmati tra le parti. Questo avveniva malgrado l’esistenza di un “regolamento dell’affitto” (deliberato nel 1877 dal sindaco Carlo Botti, di cui approfondisco la figura nel mio recente libro “1867 Garibaldini contro papalini) che all’articolo 1 sanciva che “La concessione è personale, niuno vita natural durante potrà cederla ad altri, siano pure della propria discendenza e famiglia”.
Insomma, in un quadro confuso e fuorilegge come quello appena descritto, le istituzioni moderne, pur conoscendo pienamente il fenomeno, a un certo punto decisero di trovare una soluzione che permettesse agli affidatari di poter riscattare il terreno assoggettato all’uso civico riconoscendo il valore delle cessioni. Di fatto facendolo diventare privato una volta pagato il dovuto, in base all’analisi del perito regionale.
A Rocca di Papa, fino agli inizi degli anni Novanta, esistevano quasi 200 affidatari di orti comunali, quindi una buona fetta di popolazione (calcolando quattro persone a famiglia arriviamo alla cifra di 800 cittadini residenti), circa il 10% dell’intera popolazione. Duecento affidatari di cui alcuni neanche censiti, che nel corso degli anni avevano trasformato questi orti in aree edificate che avrebbero fatto nascere il quartiere più popoloso di Rocca di Papa, appunto quello dei Campi d’Annibale. Una realtà demografica di fronte alla quale il Comune non poteva più far finta di niente, anche perché nel frattempo si era verificata un’altra emergenza, causa diretta delle realizzazioni al di fuori delle regole: l’inquinamento delle falde acquifere in una zona in cui esisteva addirittura una sorgente, chiamata “del Pantanello”, per la quale fino agli anni Settanta si celebrava una sagra, la “Sagra dell’acqua del Pantanello”. Le conclusioni a cui pervenne il perito regionale, dopo aver ricostruito le vicende storico-urbanistiche connesse all’uso civico, le riporto di seguito perché sono una sintesi perfetta per comprendere un fenomeno che forse non ha eguali nel resto d’Italia:
«In base ai documenti citati possono trarsi con sicurezza le seguenti conclusioni:
- Il comprensorio entro il quale si trovano gli Orti è da qualificarsi, senza dubbio, demanio di uso civico perché pervenute al Comune per affrancazione di usi civici;
- Le quote identificate, chiamate localmente “Orti” essendo state concesse dal Comune agli utenti sotto determinate condizioni e con l’obbligo della migliorìa, rientrano fra le concessioni di terra ed utenza previste nel regolamento del 1928;
- Non si può parlare di colonie perpetue perché lo quote furono fatte su terre di uso civico e quindi la concessione non può essere che precaria, oltre a ciò esiste il titolo di concessione che definisce chiaramente il concessionario quale affittuario a tempo determinato con facoltà di rinnovo del contratto d’affitto, previa variazione del canone sulle migliorìe apportate dall’affittuario.
Considerato il lungo tempo trascorso dalla data delle concessioni dei cosiddetti “Orti”, accertato che nel tempo sono avvenuti numerosi ed anche inevitabili passaggi di possesso fra i quotisti, molti dei quali non autorizzati dagli uffici comunali, soprattutto negli ultimi decenni, ne consegue che nella stragrande maggioranza dei casi, allo stato, i possessori degli “orti” non sono più gli antichi concessionari o i loro discendenti in linea diretta. Le difficoltà saranno rappresentate dalle ulteriori divisioni tra gli eredi degli antichi concessionari o loro aventi causa e dalle edificazioni del tipo abusivo che numerose saranno riscontrate».
A oggi la maggior parte delle pratiche di riscatto degli orti comunali è stata conclusa con l’acquisto da parte degli occupanti che quindi, a tutti gli effetti di legge, sono proprietari di queste aree.
Questo ci permette di comprendere come il controllo del territorio e il diritto generale connesso all’uso civico dello stesso è sempre soggetto all’interesse privato tendente a ridimensionare il primo a favore di pochi. Così un diritto, come quello di lavorare terreni pubblici, nel corso degli anni è diventato un modo arbitrario di vantare proprietà illegittime.
Un sistema quest’ultimo che ci riporta alle grandi battaglie ambientali condotte da Antonio Cederna a favore della tutela di una delle aree più pregiate dal punto di vista archeologico e naturalistico d’Italia: la via Appia antica. Scriveva Cederna nel 1953: «Per tutta la sua lunghezza, per un chilometro e più da una parte e dall’altra la via Appia era un monumento unico da salvare religiosamente intatto, per la sua storia e per le sue leggende, per le sue rovine e per i suoi alberi, per la campagna e per il paesaggio, per la vista, la solitudine, il silenzio, per la sua luce, le sue albe e i suoi tramonti… Andava salvata religiosamente perché da secoli gli uomini di talento di tutto il mondo l’avevano amata, descritta, dipinta, cantata, trasformandola in realtà fantastica, in momento dello spirito, creando un’opera d’arte di un’opera d’arte: la Via Appia era intoccabile, come l’Acropoli di Atene» (tratto da I Gangsters dell’Appia, Il Mondo, 8 Settembre 1953).
Ma le cose si possono osservare in modo diverso. Pochi giorni dopo in cui Cederna aveva questa visione del paesaggio come bene comune, molte istituzioni vedevano invece la tutela paesaggistica e ambientale come un freno allo sviluppo e come un legaccio da cui liberarsi. Agli inizi degli anni Cinquanta, infatti, Rocca di Papa fu soggetta a numerosi vincoli, soprattutto legati al paesaggio, ma l’amministrazione comunale di allora cercò in tutti i modi di aggirarli conducendo un controllo del territorio volutamente blando. A descrivere questo stato di fatto è una lettera dell’allora Soprintendenza ai monumenti del Lazio che, in una lettera datata 21 settembre 1953 avverte l’esigenza di scrivere alla direzione generale dell’antichità e belle arti del ministero della pubblica istruzione, per segnalare che
«Questo ufficio ha più volte constatato in seguito a sopralluoghi nel territorio del Comune di Rocca di Papa, il sorgere di costruzioni non autorizzate che ledono l’integrità del paesaggio. Il Comune di Rocca di Papa – continuava la nota – sistematicamente cerca di svincolarsi dalla procedura legale per farci trovare di fronte al fatto compiuto, nella presunzione che questo basti per ottenere una sanatoria. Questa Soprintendenza – terminava la lettera – si trova dunque di fronte a una situazione grave che non riesce a fronteggiare per l’ostruzionismo (la parola è questa) del Comune di Rocca di Papa».
Parole dure che fanno meglio comprendere oggi l’impresa condotta da uomini come Antonio Cederna che rimane a tutti gli effetti un baluardo della tutela del bene comune anche se il sopruso si basa sulla protezione, e sui mancati controlli, delle istituzioni. Un’altra cosa che non dobbiamo dimenticare è che le battaglie civili e ambientali non possono mai fermarsi e osservare ciò che accade nei nostri bei territori è la migliore azione di tutela che si possa esercitare.